Mondi, storie, valori: il brand come dispositivo semiotico

7 Aprile 2021

Il valore del Brand

Gli amici di Visualize Value sono specializzati nel rendere immediatamente chiari concetti complessi, attraverso immagini tanto semplici quanto geniali. Questa qui sopra ad esempio, mi ha letteralmente tolto il sonno dalla prima volta che l’ho vista, perchè ci mostra qualcosa che è difficile spiegare a parole, una dinamica nella quale – più o meno consapevolmente – siamo tutti immersi sin dai primi passi che muoviamo nel mondo come consumatori. Quest’immagine ci dice cos’è un brand, anzi meglio, ci dice cosa fa un brand ai prodotti che commercializza e a noi che li acquistiamo.

E quindi perchè quest’articolo, se l’immagine dice già tutto? Perchè vorrei ragionare sul motivo per cui siamo disposti a spendere 50 € “per una maglietta bianca, solo perchè c’è sopra il logo della Nike“: quante volte ci siamo sentiti dire questa frase da qualche amico che voleva farci sentire dei fessi? Io tante e confesso di averla detta anche io qualche volta.

Ma vorrei anche sottolineare che ogni euro investito oggi in brand awareness sarà domani d’impulso per la lead generation e il fatturato. Non è una scelta, sono semplicemente investimenti che vanno fatti a meno che non ci stia bene essere scelti solo e soltanto perchè costiamo meno della concorrenza, o perchè a parità di prezzo offriamo qualcosina in più. Da questa logica si esce soltanto se siamo in grado di dare valore al nostro brand. Creare uno storytelling che lo posizioni all’interno del contesto sociale e che lo associ a dei valori che ci consentano di creare un legame forte con i nostri clienti. E quindi sì, dobbiamo essere disposti a investire tempo e denaro anche in azioni di marketing non immediatamente legate alla vendita e/o alla lead generation. Vediamo meglio perchè.


Le Air Jordan 1 e il Madison Square Garden

Partiamo da una storia.

Siamo nel Marzo del 1998 e mancano pochi giorni alla sfida tra i Chicago Bulls e i New York Knicks che si disputerà al Madison Square Garden, “the world most famous arena”.

Una sfida speciale, non solo per la location d’eccezione e per il prestigio delle squadre in campo: nessuno lo sapeva ancora, ma quella sarebbe stata l’ultima partita di sua maestà Michael Jordan nella Mecca del basket con la maglia dei Bulls.

Nessuno tranne lo stesso Jordan evidentemente, che pochi giorni prima della partita, mentre stava facendo ordine a casa sua, si trovò tra le mani un paio di Air Jordan 1 del 1985, il primo modello che la Nike aveva realizzato per lui ben 13 anni prima. Ed ecco l’idea: per omaggiare il Madison Square Garden, i tifosi di New York, i Kniks e la sua stessa carriera, il giorno della partita avrebbe indossato proprio quelle scarpe. Per chiudere un cerchio e tornare idealmente a quel 1985 in cui fu nominato rookie dell’anno (qui sotto una foto di quell’anno che lo ritrae mentre affronta con le sue Nike John Stockton degli Utah Jazz).

L’idea era buona, ma c’era un problema: la taglia era un 12 americano (un 45 europeo) e Jordan nel frattempo era passato al 13 (il 46). Poco male, pensò semplicemente che le avrebbe indossate solo durante il riscaldamento per poi sostituirle prima dell’inizio della parita. Questo era il piano, ma non andò esattamente così.

Appena sceso in campo per il riscaldamento tutti si concentrarono immediatamente sulle scarpe che evidentemente dovevano significare qualcosa. Ma che cosa? Perchè le indossava? Quale messaggio voleva mandare? L’elettricità nell’aria era tangibile e c’era talmente tanta attenzione sulle sue Nike che Jordan decise di usarle anche per la partita, ma con quale risultato?

I 19.000 fortunati che quell’8 Marzo 1998 riempivano il Madison Square Garden ammirarono l’ennesimo capolavoro di Jordan, probabilmente la sua miglior partita di sempre giocata a Ney York: durante i suoi 43 minuti in campo, Jordan ha portato i Bulls alla vittoria con 42 punti, otto rimbalzi, sei assist, tre palle recuperate e una stoppata.

Ci fu un prezzo da pagare per Jordan: “Non avete idee delle vesciche che avevo ai piedi quando mi tolsi le scarpe a fine gara”, dichiarò all’epoca. Molti anni dopo, in The Last Dance (la docu-serie su Netflix su Jordan e i Bulls) Jordan si è soffermato in modo particolare sul dettaglio dei suoi calzini pieni di sangue, ma non si è mai mostrato pentito per quella scelta. È proprio Jordan a spiegarci perchè:

It’s been a long time since I wore them. It’s kind of fun to come back here and play and remember some of the old days and some of the games that I’ve had here. The shoes are a part of that. But my feet are killing me.

Eccola la frase chiave: le scarpe ne fanno parte. Fanno parte dei suoi show al Madison Square Garden e delle epiche battaglie con i Knicks. Fanno parte degli anelli vinti e delle partite più memorabili.

Qui siamo molto oltre il semplice concetto di testimonial: qui si parla dell’atleta più famoso del pianeta che per celebrare un periodo importante della sua vita e della sua carriera è disposto a giocare una partita importante con delle scarpe scomode, tanto scomode da ferirgli i piedi. Perchè? Perche quelle scarpe facevano parte della storia che Jordan voleva omaggiare, quella del suo stesso mito. La storia di uno sport e, per certi versi, di un’epoca.

Il brand come dispositivo semiotico

Torniamo ora alla domanda iniziale: perchè siamo disposti a spendere 50€ per una semplice maglietta, che senza il logo della Nike costerebbe sì e no 5€?

La risposta è semplice: perchè il brand è un dispositivo semiotico.

Il baffo della Nike non si limita semplicemente a rendere riconoscibile un determinato prodotto, a dichiarare che è stato realizzato da un’azienda piuttosto che da un’altra, ma ne altera costitutivamente il valore, aggiungendo un surplus di significati che diventano determinanti nel definire la desiderabilità di un certo prodotto/servizio e, di conseguenza, il suo valore di mercato.

Il logo è a tutti gli effetti un ponte verso questi significati aggiuntivi e si pone come segno che sta al posto di qualcos’altro che non si rende immediatamente visibile. Come ci ha spiegato Laura Rolle nel suo bellissimo “Semiotica in Pratica. Strumenti per governare le strategie di brand“, il marchio

“crea un mondo, lo arreda, sceglie dei temi e dei valori di riferimento nei quali essere riconosciuto e li gestisce secondo logiche narrative, più o meno, consapevolmente. In ciascun settore merceologico ci troveremo, quindi, a confrontare, non tanto prodotti e prezzi, ma storie e mondi” .

I brand, quelli che sanno comunicarsi in modo vincente, utilizzano logiche narrative, raccontano storie, per mettere in scena un sistema di valori che trascende le caratteristiche dei prodotti: in questo senso, praticamente in tutti i settori merceologici, ci troviamo a confrontare non tanto prodotti e prezzi, quanto piuttosto storie e mondi.

Proprio per questo continuo rimando a valori, temi, idee, storie che non sono immediatamente visibili, ma tuttavia presenti e influenti, il brand è stato definito più volte come un dispositivo semiotico “in quanto costruisce, e mette in atto costantemente, un processo di rimando a qualcos’altro, a un prodotto, a un mondo di valori che costruisce e alimenta nel tempo, perché in esso i consumatori possano riconoscersi”.

Acquistando un prodotto Nike infatti, non acquistiamo solo un paio di scarpe o una maglietta, ma anche delle storie e una certa idea di mondo: acquistiamo in qualche modo la possibilità di sentirci parte della storia che abbiamo appena raccontato, acquistiamo l’incredibile epopea di Michael Jeffrey Jordan che da semplice rookie of the year è riuscito a diventare l’atleta più famoso e influente del mondo. Acquistiamo il suo essere fuori dagli schemi, unico atleta Nike in un periodo in cui Converse vestiva tutti i top player NBA. Ma non solo, acquistiamo anche la pubblicità di Cantona e Maldini al Colosseo, il Joga Bonito e i dentoni di Ronaldinho, lo strapotere di Lebron James.

Vi sembra poco? E non è solo una questione di testimonials e di pubblicità: acquistando un prodotto Nike acquistiamo anche il Just Do It e tutto il sistema di valori che Nike ha saputo costruire e mettere in scena negli anni.

Sul suo sito, Nike ci ricorda che chiunque abbia un corpo può considerarsi un atleta, senza alcuna distinzione di sesso (la scelta di Semenya non è casuale), età, religione o colore della pelle. Che la loro missione è ispirarci e supportarci con le loro innovazioni. Che non abbiamo scuse e che non dobbiamo fare altro che provarci. Just Do It.

Quando acquistiamo un prodotto griffato Nike siamo disposti a spendere di più non perchè il logo della Nike è bello o aggiunge qualcosa da un punto di vista qualitativo, ma perchè quel logo porta con sè storie, temi, valori e personaggi che in qualche modo ci piacciono e nei quali ci rispecchiamo, li sentiamo nostri.

Le due dimensione del brand: soggettiva e sociale

LA DIMENSIONE SOGGETTIVA – Quella su cui ci siamo appena soffermati è la prima dimensione su cui opera il valore del brand, la dimensione soggettiva: siamo più propensi ad acquistare un prodotto che porta con sè significati che ci sono graditi. Se ci sentiamo rappresentati, se ci sentiamo “capiti” da un certo brand, se ne restiamo in qualche modo affascinati, siamo immediatamente disposti anche a spendere qualcosa in più.

Faccio un esempio: quando ho dovuto realizzare i miei biglietti da visita ho scelto di farlo con MOO. Non è certamente il servizio più economico e non mi sono soffermato troppo sulle possibilità di personalizzazione o sulla qualità della carta: a fare la differenza è stata la loro newsletter che periodicamente mi suggerisce idee per valorizzare il mio lavoro e la mia professionalità. Non solo sconti o presentazione di nuovi prodotti (come il 99% delle newsletter che ricevo), ma vere e proprie idee per il personal branding. Un po’ come Nike fa con gli atleti (in fondo basta avere un corpo), MOO si presenta come un alleato che vuole far parte della storia e del successo dei professionisti che acquistano i loro prodotti. E non è facile imporsi sul mercato in questo modo: ci vuole visione, una certa sensibilità, ma ci vuole anche uno sforzo non da poco, dato che le azioni di marketing che vengono messe in campo non sono immediatamente finalizzate alla vendita o alla lead generation.

LA DIMENSIONE SOCIALE – E poi c’è l’altra dimensione del brand, forse ancora più importante: quella sociale.

Torniamo alla Nike: comprando i loro prodotti non solo proviamo il gusto personalissimo di entrare in contatto con un brand che veicola significati e valori che ci piacciono , ma comunichiamo al mondo che quel sistema di valori è anche il nostro. Che ci identifichiamo nella loro visione del mondo. Un po’ come quando abbiamo finito di leggere un bel libro e siamo orgogliosi di esporlo nella nostra biblioteca: non solo quel libro ci è piaciuto, ma ci fa anche piacere essere in qualche modo identificati come appassionati di certi temi e di certi autori. Personalmente ci tengo a far sapere a tutti che mi piace Kurt Vonnegut e per questo è sempre in bella mostra in giro per casa.

Con i brand succede in qualche modo la stessa cosa: ci aiutano a comunicare al mondo cosa ci piace e cosa no, in cosa crediamo e in cosa no. Ci aiutano in quella delicatissima operazione, soprattutto in età adolescenziale (ma che in realtà non finisce mai), che è la costruzione della nostra stessa identità e la definizione dell’immagine che di noi stessi vogliamo dare agli altri.

E così quando tiriamo fuori dalla tasca il nostro iPhone stiamo dicendo a tutti – e certamente ci piace dirlo – che siamo rimasti affascinati dal carisma di Steve Jobs, dal suo genio e dal suo one more thing, che magari ne condividiamo l’attenzione maniacale per il buon design, che preferiamo l’ecosistema chiuso di Apple rispetto a quello aperto di altre aziende altrettanto blasonate.

via Gfycat

E così oltre a comunicare quello che ci piace, il brand ci permette anche di schierarci, comunicando implicitamente cosa non ci piace:

I marchi definiscono la propria identità sopratutto nel contesto competitivo in relazione e confronto con le altre marche. Così si definisce l’identità di ciascun termine. Bisogna tener conto di entrambi i termini e il modo in cui vengono socialmente rappresentati per poter costruire il proprio discorso.

Android VS iOS, Google VS Apple, sistema aperto VS sistema chiuso, dialogo e integrabilità VS efficienza. Attraverso queste opposizioni i vari brand definiscono il loro posizionamento sul mercato e, parallelamente, attraverso l’ostentazione di un certo logo gli acquirenti si espongono, dicendo al mondo da che parte stanno. In cosa credono e in cosa non credono. In cosa vogliono essere identificati e in cosa no.

Un po’ come indossare un paio di scarpe da calcio Adidas può essere oggi un modo per dire che tra Messi e Cristiano Ronaldo si preferisce la pulce del Barcellona, la fantasia e il dribbling dell’argentino alla fisicità e la potenza del portoghese.

Come e perchè aumentare il valore del tuo brand

Conosco persone – non sto scherzando – che provano un certo gusto nel comunicare al cameriere le portate che hanno scelto e che quindi scandiscono l’ordinazione per bene, affinchè tutti possano sentirla. Perchè banalmente “scegliere è bello” significa prendere una posizione, esporsi, definirsi.

Quando un brand raggiunge questa dimensione, e permette a chi lo ostenta di comunicare qualcosa, di mostrare un aspetto, seppur parziale, della propria identità, di dire agli altri cosa apprezza, cosa preferisce, allora vuol dire che il suo valore è enorme ed è in grado di impattare con decisione sul prezzo dei prodotti che commercializza.

Succede qualcosa di molto simile a quanto già visto quando ci siamo occupati di Nostalgia marketing: la relazione tra azienda e potenziale cliente si sposta su una dimensione in cui il costo di un prodotto in relazione alle sue caratteristiche non è più un argomento pertinente, o comunque non l’unico in grado di orientare il processo di acquisto.

Eccolo dunque l’obiettivo che ogni buona strategia di web marketing dovrebbe prefiggersi:

mettere in campo una serie di azioni mirate in grado di costruire un insieme di temi, valori, idee, in qualche modo desiderabili dai nostri clienti e trasformare il nostro brand nel ponte in grado di metterli in contatto con questo surplus di valore. Nella costruzione di questo ponte le caratteristiche dei nostri prodotti, il rapporto qualità/prezzo e il confronto con quelli di aziende correnti, costituiscono un tassello certamente importante (come lo è ad esempio l’eccellenza del design dei prodotti Apple) ma non decisivo quanto le storie che saremo in grado di raccontare, i mondi che saremo in grado di allestire e arredare.

Proviamo a fare un esempio: siamo un ente di formazione e vogliamo vendere corsi di scrittura efficace. Che tipo di persone sono gli studenti che si iscrivono ai nostri corsi? Cosa sognano? Cosa temono? Come usano le nozioni che acquisiscono con i nostri corsi? Come cambia la loro vita una volta che il corso e finito? E se non cambia, perchè? In quali valori credono e si identificano? Qual è l’immagine di loro stessi che sognano di costruire e di poter mostrare agli altri? Come è cambiata la loro reputazione sociale dopo aver fatto il corso e quanto si sono divertiti a farlo? E invece per quanto riguarda noi: come vogliamo posizionarci? Come una scuola inclusiva che vuole dare a tutti la possibilità di crescere e di migliorarsi? O come una scuola d’elite? Siamo realmente aperti nei confronti delle minoranze? Abbiamo a cuore il tema della sostenibilità ambientale?

Ecco allora che dobbiamo per prima cosa essere bravi a farci le domande giuste. E poi dobbiamo avere coraggio: il coraggio di scegliere, perchè per ogni risposta che daremo ce ne sono mille che non daremo mai. Per ogni posizionamento che scegliamo di adottare ce ne sono mille a cui invece rinunciamo.

Dovremo essere in grado non solo di proporre prodotti/servizi coerenti con il posizionamento che abbiamo scelto, ma anche e soprattutto di creare attraverso le nostre azioni comunicaive, attraverso le nostre storie, un mondo pieno di temi, valori e significati che il potenziale cliente, col tempo, imparerà ad associare al nostro brand e con i quali sarà felice di congiugersi.

Questa operazione di arredamento, la costruzione e il racconto del nostro brand, deve essere definita con perizia e alimentata quotidianamente e nel medio-lungo periodo è in grado di portare benefici enormi. Non è facile però, perchè si tratta di mettere in campo azioni di marketing che costano tempo e denaro, senza essere immediatamente finalizzate alla lead generation o alla vendita. Per molti imprenditori con cui mi trovo a lavorare quotidianamente è una strategia difficile da sposare: avviare un percorso di valorizzazione del brand può sembrare per certi versi una scelta controintuitiva, proprio per il suo non essere immediatamente legata al fatturato.

Ma che cosa succede se abbiamo prodotti e servizi magari di qualità eccelsa, ma nessuna storia da raccontare, nessun mondo da comunicare? Succede che saremo scelti sempre e soltanto per il rapporto qualità/prezzo, dopo attento confronto con le altre soluzioni disponibili sul mercato. Che il margine di guadagno su ogni vendita sarà sempre ridotto all’osso. E che saremo sempre puniti tutte le volte che chiederemo ai nostri potenziali clienti anche un solo euro in più rispetto ai nostri concorrenti.

Se questo articolo ti è piaciuto, se vuoi saperne di più, o vuoi scoprire come implementare una strategia di web marketing in grado di aumentare il valore del tuo brand scrivimi qui. Ti aspetto.

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